La geografia del vino è una disciplina complessa, stratificata, intimamente intrecciata con le dinamiche del capitale, della cultura e della natura. Non si tratta soltanto, come un certo discorso enologico vorrebbe farci credere, di un semplice rapporto tra suolo, clima e vitigno — il cosiddetto terroir — ma di una costruzione simbolica e politica dello spazio produttivo.
In questa prospettiva, lo studio “Geographical indications and welfare: Evidence from US wine demand” a firma Chandra, Moschini e Lade, uscito sull’American Journal of Agricultural Economics ad ottobre 2024, diventa un osservatorio privilegiato per indagare in che modo le indicazioni geografiche operino come dispositivi di valorizzazione e differenziazione nello spazio agroalimentare americano.
Lo studio analizza quanto i consumatori statunitensi valorizzino l’origine geografica del vino, stimando l’impatto economico delle indicazioni geografiche (AVA) sul benessere di produttori, distributori e consumatori tra il 2007 e il 2019.
Partiamo da un inquadramento necessario: negli Stati Uniti, le American Viticultural Areas (AVA) non sono altro che delimitazioni amministrative che certificano un’origine geografica. A differenza delle Denominazioni di Origine europee, esse non prescrivono pratiche colturali o trasformative. La geografia, qui, è segnalata ma non normata; evocata, ma non garantita. Eppure, ciò basta affinché il mercato riconosca un valore differenziale all’origine territoriale: secondo lo studio, i consumatori sono disposti a pagare fino a 17 dollari in più per una bottiglia proveniente da AVA celebri come Anderson Valley o Sonoma rispetto a un generico vino californiano.
Ma cosa significa questo fenomeno?
Non siamo di fronte a un semplice apprezzamento della qualità organolettica: ciò che viene remunerato sembra più il significato territoriale, il valore simbolico e reputazionale, costruito nel tempo attraverso una rete di narrazioni, investimenti, mediazioni e storicizzazioni. In altre parole, l’indicazione geografica (IG) agisce per il vino come una forma di branding collettivo territoriale, un’istituzione che fissa nello spazio il valore come relazione sociale e immaginario.
L’interrogativo economico posto dallo studio è preciso: quanto incidono le indicazioni geografiche sul benessere economico? La risposta, fondata su un modello strutturale di domanda stimato su dati NielsenIQ (2007–2019), è netta: 5,37 miliardi di dollari di surplus complessivo generato, di cui il 78% appannaggio di produttori e distributori. La funzione delle IG, in questo contesto, appare quindi duplice: ridurre l’asimmetria informativa e abilitare una più raffinata segmentazione del mercato. Ma dietro questa apparente neutralità economica si cela una più profonda dinamica di trasformazione del valore in quello che ancora oggi possiamo definire capitalismo post-fordista.
Le IG, quindi, possono essere lette come una forma di valorizzazione differenziale dello spazio.
Tali indicazioni geografiche possono essere viste come un modo per attribuire valore ai luoghi. Ma attenzione, queste non generano ricchezza dal nulla. Piuttosto, la redistribuiscono e la concentrano, creando nuove gerarchie territoriali. In pratica, alcune zone vengono premiate — spesso quelle già conosciute e riconosciute — mentre altre restano invisibili. Il valore che ne deriva non nasce da un aumento della produttività, ma dalla forza del simbolo: dall’unicità percepita, dalla reputazione, dall’aura che un territorio riesce a evocare.
Così, un luogo diventa marchio, e il marchio diventa rendita. È la logica del capitalismo cognitivo: il valore non dipende più solo dal lavoro materiale, ma da elementi immateriali come l’identità, la narrazione e l’immaginario territoriale. L’origine geografica, insomma, diventa una strategia per catturare attenzione e generare profitti in un mercato ormai saturo e rallentato.
Da qui anche una possibile lettura keynesiana: quando i consumi rallentano e la domanda non cresce, differenziare il prodotto diventa essenziale. Dare un nome accattivante, una bella storia e un luogo da cartolina a una bottiglia di vino aiuta non solo a vendere, ma anche a sostenere prezzi, occupazione e investimenti, soprattutto in agricoltura e nelle filiere locali.
Ma questa strategia ha un prezzo. Come mostrano chiaramente i dati dello studio, i benefici si concentrano nelle mani di pochi. Le AVA più famose, spesso già forti per capitali, reti e visibilità, raccolgono la gran parte del valore creato. Il rischio è quello di amplificare le disuguaglianze tra territori “vincenti” e territori dimenticati: tra chi può trasformare il proprio nome in valore di mercato e chi resta fuori dal gioco, condannato all’anonimato.
Questo scenario apre a una domanda fondamentale: le IG sono strumenti di promozione o ingranaggi della macchina economica? La risposta dipende dalla loro architettura istituzionale.

Mappa interattiva completa di informazioni e confini di tutte le AVA oggi presenti negli USA prodotta dal TTB (Alcohol and Tobacco Tax and Trade Bureau). Link qui: https://www.ttb.gov/ava
Negli Stati Uniti, come dicevamo, le indicazioni geografiche si muovono dentro un contesto profondamente segnato dalla deregolamentazione e dall’individualismo competitivo. Le AVA non impongono vincoli sulle tecniche produttive né sui criteri di qualità, e si riducono spesso a meri strumenti di distinzione commerciale. Funzionano, per capirci meglio, come etichette che rendono il territorio monetizzabile, ma senza offrire reali garanzie né sulla sostenibilità delle pratiche agricole, né sul radicamento sociale della produzione. In tale scenario, la geografia diventa una superficie di marketing, e il legame con la terra un simulacro vendibile, più che un rapporto da custodire. Le IG, così, non difendono il locale: lo mercificano.
Ma anche in Europa — dove le IG sono storicamente nate come strumenti di tutela dei territori e delle culture contadine — qualcosa si sta incrinando. Sempre più aziende, anche di nuova generazione, scelgono di uscire dai disciplinari, giudicandoli troppo rigidi da un lato, e troppo poco rappresentativi dall’altro. Il paradosso è evidente: ciò che era nato per proteggere la diversità rischia oggi di soffocarla, standardizzando l’identità sotto logiche normative che favoriscono le strutture più forti e consolidate.
Questa disaffezione crescente verso le denominazioni può essere letta alla luce di una più ampia trasformazione socio-istituzionale: il passaggio da una logica collettivista a una governance fondata su dispositivi tecnici e normativi dominati da élite produttive e apparati oligarchici. In termini di teoria sociale, si potrebbe dire che le IG stanno attraversando una “crisi di complessità”: di fronte a un mondo agricolo in mutazione, mobile, ecologicamente sfidato e culturalmente fluido, i dispositivi di regolazione nati in un’epoca di relazioni più stabili e comunitarie si rivelano sempre meno adatti a garantire inclusività, equità e adattabilità.
Si assiste così a una progressiva perdita di senso collettivo: le denominazioni non sono più sentite come strumenti comuni, ma come barriere o rendite per pochi. In un contesto dove la legge tende a farsi espressione di poteri consolidati più che di esigenze diffuse, la territorialità rischia di diventare una scena vuota — evocata nei discorsi, sfruttata nei mercati, ma sempre meno vissuta e difesa dalle comunità che abitano e lavorano quei luoghi.
Lo studio di Chandra et al. è prezioso perché quantifica, con rigore metodologico, l’impatto economico delle IG sul mercato del vino. Ma ci invita, più profondamente, a una riflessione critica sulla produzione sociale del valore nello spazio. Il vino non è solo un prodotto agricolo: è il vettore di una geografia affettiva, simbolica, identitaria. Le IG possono contribuire a valorizzare questi significati, ma solo se accompagnate da regole, istituzioni e pratiche che ne impediscano la mercificazione pura.
L’invito sarebbe forse quello di rimettere al centro la questione territoriale come nodo politico: chi decide quanto valga un territorio? Chi capitalizza sulle sue qualità? E in che misura queste forme di valorizzazione rispondono ai bisogni delle comunità locali, piuttosto che a logiche di estrazione del valore?
Nel mondo del vino, l’origine conta, eccome se conta. Ma la direzione in cui essa viene mobilitata — per il profitto o per la giustizia territoriale e dignità agroalimentare — resta tutta da scrivere. La partita è ancora aperta e la sua scrittura, profondamente politica.
[Cover: Sonoma Valley]